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A Enna tutto tranquillo, a Pietraperzia nove morti
Nel 1893, quando gli iscritti al Partito socialista si contano in alcune decine di migliaia, in Sicilia ha luogo un’imponente quanto tumultuosa crescita delle organizzazioni legate ai Fasci dei lavoratori che, a fine anno, giunsero – si disse – ad avere 300.000 aderenti, dando vita, come ha affermato Giuseppe Carlo Marino, al “più grande movimento popolare del XIX secolo in Europa, dopo la Comune di Parigi”. La Sicilia interna - connotata dal latifondo e dalle miniere di zolfo e che opportunamente Franco Amata ha definito l’“isola nell’isola” – svolge un ruolo tutt’altro che secondario. Nell’attuale provincia di Enna (suddivisa allora tra quelle di Caltanissetta e di Catania) queste organizzazioni socialiste (a metà strada tra partito e sindacato) sorgono a Catenanuova (gennaio), Regalbuto (maggio), Agira (giugno), Villarosa (agosto) e in settembre a Barrafranca e a Pietraperzia; in alcuni comuni (Aidone, Assoro, Cerami, Leonforte, Nicosia, Nissoria) sono le preesistenti Società operaie a tenere collegamenti con la direzione palermitana, mentre in altri (Valguarnera e Troina, per esempio) ci si dà da fare, senza ottenere risultati, per creare una sezione comunale.
Il Fascio di Enna viene fondato il 28 maggio di quell’anno. A metà luglio ha luogo una delle prime manifestazioni della nuova associazione. Si tratta di una conferenza tenuta dallo studente ventitreenne Giulio Marchese, fondatore e redattore dell'“Enna”, organo del locale fronte democratico. Ecco come il “Giornale di Sicilia” dà notizia della manifestazione:
“L'egregio giovane Giulio Marchese ha tenuto una conferenza ai soci di questo Fascio dei Lavoratori. Parlò dello scopo dei Fasci, intrattenendosi specialmente sui doveri che hanno i soci, raccomandando loro di pensare ad istruirsi e di fare educare i figli”.
Queste raccomandazioni, che richiamavano la posizione dei dirigenti regionali in ordine all'attività politica nelle campagne cui era pregiudiziale l'educazione intellettuale e morale dei contadini, nascevano dalle paurose condizioni scolastiche della città, dove, nel 1875 solo poco più del 3 % degli aventi diritto aveva frequentato le scuole elementari. Nel 1893, la grande maggioranza degli ennesi era dunque analfabeta.
Successivamente, Marchese si faceva portavoce di una polemica che per anni aveva diviso il movimento operaio e, prendendo posizione a favore del gruppo dirigente del neonato partito socialista, che, richiamandosi al programma della socialdemocrazia tedesca, aveva rotto con gli anarchici e con le tradizioni insurrezionaliste, raccomandava agli ascoltatori “di mantenersi in tutto calmi e, imitando i tedeschi, di stare sempre dentro l'orbita della legge”. L'articolo, firmato con pseudonimo, ma probabilmente opera del corrispondente Eugenio Dibilio, un maestro elementare di orientamento socialista, termina dicendo che l’oratore “raccomandò poi in ispecial modo il rispetto delle opinioni altrui: evitando così molti inconvenienti che lo spirito di parte spesso causa. Fu molto applaudito”. Giulio Marchese veniva schedato dalla polizia come “socialista evoluzionista senza però essere pericoloso all’ordine pubblico”.
La sezione fu ufficialmente inaugurata l'8 ottobre dello stesso anno con la partecipazione di Napoleone Colajanni e dei due maggiori dirigenti del movimento: Rosario Garibaldi Bosco, che venne da Palermo e Giuseppe De Felice, che venne da Catania; l’organizzazione ennese aderì al partito socialista alcune settimane dopo: il 23 novembre 1893.
Secondo fonti dell’epoca, al Fascio di Enna aderivano circa duemila soci, tra operai e contadini, spinti dalla lotta “per l’emancipazione del proletariato, per l’abolizione dei dazi e per la ripartizione delle terre comunali”. Nella sede dell’organizzazione, “tra cartelloni socialisti ed i quadri di Marx, Mazzini, Garibaldi, spiccava pure il quadro del re al posto d'onore e un grande crocifisso”. Quando De Felice partecipò all’inaugurazione della sede, fu “accompagnato dalla figlia Maria vestita di rosso, la quale, secondo Paolo Vetri, incitò le donne a lasciare la calza per imbracciare la carabina”. Il giornalista milanese Adolfo Rossi, inviato speciale in Sicilia, così descriveva, invece, Maria De Felice: “una gentile giovanetta quattordicenne straordinariamente animata dalla fede nel socialismo, che parla al popolo col fervore di una missionaria e che, per il sesso e per l’età, esercita sulle massa un vero fascino”.
Diretto da elementi provenienti dal ceto medio e perfettamente allineato alle posizioni del comitato centrale di Palermo o, se si vuole, al marxismo turatiano, il Fascio di Enna esercitò, come dirà in seguito Colajanni un'azione moderatrice e a esso si dovette se a Castrogiovanni, così come a Villarosa, si riuscisse a mantenere l'ordine senza cadere nelle provocazioni poliziesche di fine d’anno. Il suo presidente era Ernesto Fontanazza – che il Rossi - il quale durante il suo viaggio isolano fece tappa ad Enna e lo conobbe – descrive come “un bell’uomo dalla barba castana e dal viso d’una dolcezza d’apostolo”. Fontanazza era tenuto in buona considerazione dai dirigenti regionali dei Fasci se è vero che nella cruciale riunione del comitato centrale tenutasi a Palermo il 3 gennaio 1894, fu designato a sostituire, quale rappresentante della provincia di Caltanissetta in quell'organismo, il nisseno Lo Piano Pomar. Questa scelta era d’altronde nell'aria poiché Enna, nel dicembre del 1893, veniva indicata come probabile sede del prossimo congresso dei Fasci della Provincia.
È molto probabile che Colajanni, benchè formalmente non aderente, abbia esercitato la sua influenza sul Fascio che sorgeva proprio nella sua Castrogiovanni, così come buoni dovevano essere i rapporti politici tra lui e il Fontanazza se i due, nell'ottobre del 1893, andarono assieme a Milena a calmare gli abitanti di quel paese. Tra i socialisti ennesi, inoltre, un rapporto della tenenza dei carabinieri, oltre ai citati Marchese, Fontanazza e Dibilio, annovera proprio Colajanni, definito “socialista legalitario”. Secondo lo steso rapporto, il socialista più “pericoloso” della città è Franco Carmelo Longo, definito appunto “socialista pericoloso propagandatore”; altri documenti, peraltro, ci dicono di un Longo che si reca a Valguarnera (e forse anche in altri comuni) al fine di sollecitare la creazione del locale Fascio.
Il Marchese, fedele in quegli anni a Napoleone Colajanni, finirà per entrare in rotta di collisione con il deputato. Nel 1910, si presenterà, con successo, alle elezioni provinciali contro il candidato “colajanneo”. In seguito a ciò, Colajanni si dimetterà dalla Camera. Il “socialista pericoloso” Franco Carmelo Longo diventerà un medico molto stimato; al punto che il comune, alla sua morte, gli dedicherà una strada cittadina.
Nella seconda metà dell'anno, il movimento va rafforzando il suo carattere di massa, il numero dei Fasci nell'isola continua ad aumentare per arrivare a 160 verso la fine d'ottobre. Così nella zona da noi presa in considerazione, dove altre sezioni si aggiungono a quelle esistenti. La cosa non manca di inquietare il prefetto di Caltanissetta che ritiene opportuno inviare in settembre alle autorità politiche della provincia una circolare in cui, tra l'altro, si dice:
“La sempre crescente organizzazione ed azione dei Fasci dei lavoratori in questa provincia non può non destare preoccupazione, essendo a tutti noti i fini sovversivi dell'ordine sociale e delle istituzioni a cui essi tendono sotto la maschera insidiosa di giovare alle sorti delle classi operaie”.
Il prefetto, che Colajanni qualificava di “degno strumento di qualsiasi governo ferocemente reazionario”, si allineava così alle posizioni dei proprietari terrieri e contribuiva ad alimentare quel clima di caccia al sovversivo che connoterà gli ultimi mesi del 1893.
A fine dicembre, si accende il fuoco con cui si consuma la stagione del Fasci siciliani. I fatti più gravi avvengono nei comuni in cui manca una sezione ben organizzata, capace di orientare le masse popolari. Restiamo nella nostra zona. Il 24 pomeriggio ad Assoro si prepara una cena natalizia che, per gran parte degli abitanti, si preannuncia frugale come non mai. Il contrasto con quella che si sta preparando nelle case dei “civili” appare umiliante. La politica fiscale dell’amministrazione comunale viene percepita come responsabile del disagio non meno della crisi economica generale. Un nutrito gruppo di manifestanti si avvia verso il Municipio, deciso a distruggere i ruoli delle imposte; non riuscendoci, sfoga la sua rabbia sul casino dei “civili”. La sera, arriva un centinaio di soldati che, dopo aver constatato che tutto è rientrato nell’ordine, opera decine di arresti.
Il giorno successivo – 25 dicembre – è la volta di Valguarnera. Dopo una provocazione poliziesca, il popolo si scatena: incendi negli uffici pubblici e devastazioni delle abitazioni dei notabili che sostengono l’amministrazione comunale. A mezzanotte, quando arriva la truppa, l’agitazione è ancora in corso. Vengono operate molte decine di arresti.
Il primo gennaio, tocca a Pietraperzia. L’esercito (che anche qui sostituisce la polizia) spara sulla folla che manifesta pacificamente al grido di “Abbasso le tasse! Viva il socialismo! Viva Margherita e Umberto di Savoia!”. I nove morti che ne conseguono fanno da innesco allo scoppio dell’ira popolare. Incendi e devastazioni, mentre i soldati sono costretti a rinchiudersi dentro un convento. Alle vittime, il parroco negherà i funerali religiosi perché “uccise dall’esercito”. Ammazzate due volte, si potrebbe affermare.
Il 3 gennaio, il governo proclama lo stato d’assedio nell’isola, vengono sciolti i Fasci, arrestati i suoi dirigenti ed istituiti Tribunali militari che infliggono secoli di carcere. L’auspicata nuova società – quella che un poeta popolare valguarnerese chiamava “il meglio tempo” – diventava una lontana prospettiva. Venivano consolidati i vecchi meccanismi economici, zeppi di “residui feudali”, mentre la frattura tra le due Italie si andava ulteriormente accentuando.
Enzo Barnabà
(tratto da “Il Meglio Tempo. 1893, la rivolta dei Fasci nella Sicilia interna”)