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Un dipinto di Luca Giordano ad Agrigento
Percorrendo la centralissima via Atenea di Agrigento fino alla fine o risalendola a ritroso da piazza Municipio ci si imbatte nell’ex collegio dei Padri Filippini che oggi ospita il museo civico della città e qui, in una piccola sala del piano terra, si può ammirare uno dei pezzi più belli della collezione, ovvero il Nettuno che insegue Coronide di Luca Giordano.
Il dipinto è una delle opere che nel 1926 arriva ad Agrigento grazie a uno scambio avvenuto con la galleria, allora nazionale, di palazzo Abatellis che, ricevendo a sua volta una tavola trecentesca, si privava di un’opera che era stata donata nel 1833 dal marchese e professore universitario tedesco Jacob Joseph Haus al giovane Museo della Regia Università di Palermo, cioè l’antenato dell’attuale galleria regionale.
Luca Giordano esegue questo olio su tela intorno agli anni ’60 del Seicento, ricorrendo a un soggetto che già in passato si tentava di riconoscere in un Nettuno con una ninfa alata o in un Nettuno che insegue una nereide. La presenza di un uomo barbuto, che impugna un tridente e che è accompagnato da un tritone e da un cavallo che trotta sbrigliato nell’acqua, non lascia dubbi sull’identificazione del personaggio con Nettuno, il dio dei mari del pantheon romano (che corrisponde al greco Poseidone) rappresentato qui nel tentativo di ghermire una figura femminile alata che invece prova a fuggire. Molto probabilmente quest’ultima deve identificarsi con la fanciulla Coronide, figlia del re della Focide Coroneo, tanto bella da fare invaghire potenti pretendenti e addirittura un dio, Nettuno, appunto. La storia, citata molto spesso nella pittura del Seicento, è raccontata da Ovidio nel secondo libro delle sue Metamorfosi, in cui nel giro di circa settanta versi fa prendere la parola alla stessa Coronide, la quale spiega come di fronte alle insistenti avances di Nettuno, che al rifiuto della donna si impose con la forza, levò grida di aiuto e che a soccorrerla fu solo Minerva che la trasformò in cornacchia. Queste parole pronuncia Coronide: «Tendo al cielo le braccia, ed ecco, queste / cominciano a scurirsi nereggiando / di lievi penne. Faccio per scrollarmi / dalle spalle la veste e questa è tutto / un mantello di piume che si radica / nella mia pelle. […] Corro, / ma i piedi più non toccano la sabbia: / mi libro rasoterra e volo via, / alto nel cielo, ed illibata giungo / ai piedi di Minerva che mi prende / come compagna». Più tardi Coronide subirà l’altra sventura di non essere più l’uccello prediletto di Minerva che sceglierà invece la civetta, ma questi versi bastino a rendere l’idea dei primissimi momenti di questa metamorfosi che il pittore ha voluto fissare sulla tela.
Benché la scena mitologica, come molte altre nella pittura e nella letteratura, abbia tutte le caratteristiche per assurgere a manifesto dell’antiviolenza, tema vivissimo della società di oggi, costituisce comunque un testo figurativo superbamente eseguito che esibisce tutto il suo fascino. Luca Giordano infatti, pittore nato a Napoli, era entrato in contatto con l’arte di Jusepe de Ribera prima e poi con quella di molti altri maestri, come Mattia Preti, che segnarono inevitabilmente la sua maniera: fu tanto capace di imitare i più abili maestri che è possibile parlare, per dirla con Algarotti e Lanzi, di un «Proteo della pittura». Nel dipinto di Agrigento Nettuno e Coronide sono immortalati in un ambiente aperto ma tutto inscurito da uno sfondo buio a cromie terrose che fa emergere in primo piano i due protagonisti illuminati da una luce che non manca di descrivere neanche le grinze che il tempo ha lasciato sul volto del vecchio Nettuno ed è proprio in questo dettaglio che si legge molto bene la lezione dello Spagnoletto. Ma i brani di intenso realismo degni di nota sono diversi, dalla barba del dio alle penne delle ali di Coronide che a destra sono colte in controluce, dalla stoffa che si avviluppa su se stessa al giovane volto della principessa che va intiepidendo di rosso.
L’opera di Giordano è l’esempio di una delle strade che ha intrapreso la pittura barocca in Italia e per questo, nella sala in cui è esposto, è messo in dialogo con l’opera di un’altra personalità, stavolta siciliana con accenti fiamminghi e genovesi, ovvero il monrealese Pietro Novelli, indubbio protagonista della Palermo del Seicento.
Emiliano Riccobono