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Società e Costume - BORN IN U.S.A.
Good morning Afghanistan
Ci sono delle volte che non sai intitolare un articolo e volte che ne hai più d’uno. Questa è una di quelle volte.
Il primo titolo, “Born in USA” è il titolo di una canzone di Bruce Springsteen, che è stata spesso fraintesa come canzone patriottica sia da Ronald Regan che da Donald Trump. Invece è una delle più schiette e dure canzoni sulla tragedia che è stata la guerra del Vietnam.
E a proposito di Vietnam, abbiamo voluto richiamare nel sottotitolo un film, “Good morning Vietnam”, la prima commedia sul Vietnam che Robin Williams ha trasformato in suggestioni irripetibili su quella guerra, e ce l’ha descritta meglio di tanti discorsi ideologici.
Avremmo potuto scegliere film più espliciti o epici, come Il Cacciatore, Apocalypse Now, Nato il quattro luglio, etc. o le canzoni famose di Joan Baez, di Bob Dylan, di John Lennon, dei Doors o la mitica Child in Time dei Deep Purple, ma avremmo perso tempo.
Quello che oggi vogliamo raccontarvi è un confronto tra Vietnam e Afghanistan diverso da quello che via stanno raccontando gli altri Media.
Tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, i giovani di tutto il mondo, con in testa quelli delle principali università americane, chiedevano a gran voce il ritiro delle truppe Usa dal Vietnam, contro una guerra che non capivano o non capivano più, iniziata quasi in sordina nel 1955 e poi divenuta epocale con la famosa “escalation” iniziata nel 1965.
Quando Saigon fu evacuata dalle ultime presenze americane (e le immagini dell’elicottero sull’ambasciata si sprecano in questi giorni) fu un sospiro di sollievo prima di tutto per le famiglie americane, liberate da vent’anni di morti per una guerra assurda, assurda come tutte le guerre.
Oggi siamo di fronte ad un altro abbandono precipitoso e dovremmo essere sollevati. Nessuno scriverà canzoni e solo qualche regista afgano girerà prima o poi qualche film.
Come sempre ci resteranno i libri, per capire. Ci resteranno, ad esempio, i libri di Khaled Hosseini, con in testa il più famoso: “Il cacciatore di aquiloni”.
Tutti, tanti pensano alle donne afgane ed è giusto, ma nel nostro civilissimo paese, anche se non lapidiamo e fustighiamo nessuno, quando una donna minaccia di lasciarci certe volte, troppe volte, c’è chi le uccide lo stesso, ma in privato. E non bastano le condanne e i talk show e le scarpe rosse per cancellare una vergogna.
La voce dei commentatori dell’ultima ora si concentra ora su “l’anatra zoppa alla Casa Bianca”, come hanno definito il presidente Joe Biden.
La storia si ripete. C’è chi inizia, trionfante, una guerra e chi la termina, sconfitto. Ma la guerra era già finita più di un anno fa con l’accordo di Doha del febbraio 2020, sottoscritto in Qatar da Donald Trump con le fazioni dei talebani, e che prevedeva il ritiro delle forze statunitensi dal Paese entro 14 mesi.
Potevamo, potevano stare lì ancora qualche mese, ma dopo vent’anni quanto tempo dovevamo ancora aspettare?
E se un errore c’è stato è sempre lo stesso, quello di pensare che la guerra possa risolvere ogni cosa o almeno qualcosa.
La democrazia non si può esportare ha detto qualcun altro. Libia, Egitto, Iraq, Siria, Afghanistan e fors’anche la Tunisia e certo la Turchia, sono un esempio in cui il confronto non è da fare tra democrazia e dittatura, ma è da ricercare nella cultura e nella volontà dei popoli e della loro maggioranza silenziosa. E certamente in chi sa cogliere queste pulsioni.
Addirittura ci sono paesi, tra quelli che abbiamo nominato, che sembrano voler fare la storia a ritroso: ad esempio, una storia di democrazia iniziata negli anni Trenta con Atatürk, il Padre dei Turchi, che sembra volgere al peggio in questi ultimi anni. E la Turchia è già Europa.
E non è finita. L’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio scorso ci ha mostrato come esistano delle frange estreme anche in occidente. Sciamani a parte, le immagini di quelle ore e quelle di questi giorni, con i taleban sugli scranni del parlamento come nelle immagini di Washington, parlano chiaro.
La differenza è solo nella storia e, per fortuna, nella maggioranza di un popolo.
Peppino Margiotta
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