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No alla violenza - La vittimizzazione secondaria
La vittimizzazione secondaria è quella situazione a causa della quale le donne, nei tribunali, nei percorsi legali e sanitari, nella rappresentazione dei media, nel contesto sociale, nel giudizio delle scelte di vita, diventano vittime una seconda volta.
Si tratta di una conseguenza troppo spesso sottovalutata in tutti quei casi in cui le donne sono vittima di reati di genere e, in particolare, consiste nel rivivere le condizioni di sofferenza a cui è stata sottoposta la vittima di un reato, ed è spesso riconducibile alle procedure messe in atto delle istituzioni a seguito di una denuncia. Questo effetto negativo deriva, ovviamente, dalla mancanza di formazione e dalla mancanza di raccordo e incomunicabilità tra tutti i soggetti che intervengono su un caso concreto, nonché dagli stereotipi, pregiudizi che, ancora oggi, pervadono le prassi giudiziarie e sociali.
Il Grevio (gruppo di esperte europee contro la violenza di genere), che verifica ogni anno l’applicazione della Convenzione di Istanbul nei paesi firmatari, nel suo rapporto ha evidenziato come “Il racconto della violenza nei processi è talvolta mitigato, talvolta la donna stessa è considerata corresponsabile della violenza: è ritenuta provocatrice di una reazione del maltrattante. Il sistema in atto piuttosto che offrire protezione alla vittima e ai suoi figli sembra ritorcersi contro le madri che cercano di proteggere i loro bambini”.
Il rischio della vittimizzazione secondaria è che le donne possano scoraggiarsi di fronte a simili situazioni e che vengano spente sul nascere le idee di segnalazione. Molte donne, infatti, non denunciano perché hanno paura di essere allontanate dai propri figli. Inoltre, spesso nei processi la violenza è confusa con i conflitti di separazione, le donne devono lottare in sede civile perché venga garantita una protezione in quanto vittime e un diritto in quanto madri e donne e spesso chi denuncia non è creduto.
Con la Direttiva 2012/29/UE è stata, inoltre, sottolineata l’opportunità di “limitare il rischio di vittimizzazione secondaria e ripetuta, di intimidazione e di ritorsioni – da parte dell’autore del reato o a seguito della partecipazione al procedimento penale – svolgendo il procedimento in un modo coordinato e rispettoso, che consenta alle vittime di stabilire un clima di fiducia con le autorità” ed è stata, pertanto, affermata la necessità e l’urgenza di rendere meno traumatico possibile l’incontro della vittima con la giustizia, attraverso strumenti adeguati, volti a limitare il numero delle audizioni, ad es. attraverso le audio e video registrazioni, e gli incontri con gli autori in udienza, nonché una serie di misure, messe a disposizione di operatrici ed operatori della giustizia, per evitare sofferenze alle vittime durante il procedimento giudiziario.
Ma, nonostante tutto, risulta sempre più necessaria tanta formazione sul tema per accompagnare la donna nel duro percorso di uscita dalla violenza. È, infatti, del 27 maggio 2021 l’ennesima condanna all’Italia, da parte della CEDU (Corte Europea dei Diritti Umani), sul tema.
Se non si agisce sulla formazione e specializzazione di tutti e degli operatori e delle operatrici che gravitano attorno al fenomeno, nonché se non si agisce culturalmente, anche e soprattutto nelle scuole, di ogni ordine e grado, la violenza istituzionale avrà ancora un ruolo determinante nel percorso di ogni donna che decida di reagire alla situazione primaria di violenza subita.
Carmela Mazza
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