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La violenza nei luoghi di lavoro (mobbing)
Col termine “mobbing” si definiscono quei comportamenti vessatori, messi in atto nei luoghi di lavoro, da parte di un collega o di un superiore nei confronti di un/una dipendente per incentivarne il licenziamento o le dimissioni. La Corte di Cassazione ritiene il mobbing “una sorta di epidemia mondiale di disagio, collegata alla violenza psicologica lavorativa” (Cass. pen, sez. VI, sent. n. 47139/2014). Il mobbing psicologico consiste, infatti, nella sistematica svalutazione dell’attività della vittima, accompagnato da richiami, sanzioni disciplinari, demansionamento, usato spesso come forma di ritorsione a seguito di assenze per malattia e/o maternità. Nonostante la presenza di leggi specifiche, nelle aziende si assiste troppo spesso al c.d. mobbing post partum o mobbing per maternità che affligge un numero sempre maggiore di donne. Infatti, spesso la neo mamma, rientrando a lavoro dopo il parto, si trova a dover fronteggiare situazioni spiacevoli, come, ad es. quella di non avere più uno specifico ruolo all’interno dell’organizzazione aziendale. Spesso il datore di lavoro adotta tutta una serie di comportamenti ed atteggiamenti che portano la donna che rientra dalla maternità a rassegnare le proprie dimissioni. Tra questi comportamenti rientra, nello specifico, anche il demansionamento, vale a dire la non corretta riallocazione della dipendente al suo rientro in azienda, che mira a ridurre l’autostima della donna fino a portarla a rinunciare al posto di lavoro. Quando parliamo di donne/mamme ci riferiamo a professioniste qualificate, che amano il proprio lavoro, ma che dopo la maternità vengono emarginate o demansionate per aver osato domandare orari più compatibili con la loro nuova condizione, per aver legittimamente avanzato la richiesta dei permessi per allattamento o, semplicemente, perché durante la loro assenza il loro ruolo è stato affidato a qualcun altro. Il Ministero del lavoro, ha chiarito la portata dell’art. 56 D.Lgs. n. 151/2001, sul diritto della lavoratrice al rientro dal congedo di maternità, alla conservazione del posto di lavoro e sul demansionamento della stessa. Ci sono, per fortuna, degli obblighi di legge che tutelano le donne in tal senso e che, se non rispettati, possono costare al datore di lavoro un’accusa per demansionamento e discriminazione. In questi casi è estremamente importante non lasciarsi intimorire dai comportamenti scorretti del proprio datore di lavoro e capire quando questi diventano dei veri e propri reati da denunciare per tutelarsi ed evitare che tali vessazioni vengano esercitate anche su altre donne, o comunque su altre persone in generale. Tuttavia i casi che si trasformano in effettive denunce sono pochissimi.Relativamente alla violenza di genere, ove il comportamento mobbizzante assuma le caratteristiche di molestie che possono arrivare a lesioni personali e/o sessuali, il mobbing rientra in determinate fattispecie di reato quali le molestie ex art. 660 c.p., violenza privata ex art. 610 c.p., lesioni personali ex artt. 582-583 c.p., violenza sessuale ex art. 609 bis c.p. Anche la Convenzione di Istanbul (art. 40) è intervenuta su questo fenomeno promuovendo l’obbligo per gli Stati aderenti di adottare legislazioni adeguate per contrastarlo e reprimerlo.Tuttavia, nonostante tale intervento, nel nostro ordinamento non esiste una norma incriminatrice di dettaglio, e ciò impone, ovviamente, una seria riflessione sul vuoto normativo che incide, inevitabilmente, sull’efficacia concreta dell’azione volta a contrastare il fenomeno.
Carmela Mazza
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