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Antropologia della catastrofe
L’Europa vive una condizione critica, tra le peggiori di tutta la sua storia, e la comprensione di questo stato di cose sprona a una riflessione che si può provare a concettualizzare come «antropologia della catastrofe». Il problema di fondo è che i ceti di governo che regolano la vita dell’Unione e l’approccio geopolitico non ragionano più bene. Nel clima odierno di crescente trasformismo, nichilismo e guerra ibrida, in buona misura da loro stessi instaurato, dimostrano di non riconoscere più l’alfabeto e i principi orientativi della razionalità costruttiva, surrogata questa da una nevrosi distruttiva che rischia di procurare danni immensi. Per cercare di definire questo fenomeno e comprenderne le cause, che non sono ideologico-politiche ma appunto antropologiche, può essere utile partire allora, curiosamente, da un principio logico: quello di non contraddizione.
Incuneato nella mente umana, come una delle precondizioni del ragionamento corretto, questo principio, come congegno orientativo, può suggerire nella vita concreta modelli di coerenza esistenziale, utili alle relazioni sociali e alla crescita civile delle comunità. La storia produce tuttavia, nei tempi più instabili, patologie che incrinano questo elemento regolatore. Ed è quel che si constata oggi proprio in Europa, che vanta di essere la quintessenza della democrazia e il mondo libero per antonomasia, dove è in atto una inversione culturale che muta radicalmente la visione delle cose e stravolge le condizioni di coesistenza, tra individui, società, etnie e nazioni. Si può parlare allora di uno stato di incoerenza compulsivo, contagioso e violento, che è un’anomalia assoluta.
Cosa accade nell’Europa di oggi? La dialettica politica diventa vischiosa, perché il potere a qualsiasi costo e come misura di tutte le cose, malgrado le fasi di ripensamento del secondo Novecento, è oggi la dottrina più adottata dagli Stati e nella geopolitica, seppure in forme mimetiche. Ritorna inoltre il bisogno ossessivo di guerra; come non era mai accaduto negli ultimi 80 anni, e si pianifica la corsa agli armamenti, con il consenso di fasce significative di opinione pubblica, manipolate dalle propagande degli Stati. Il furore bellicista, agitato negli anni trenta dal nazismo hitleriano come stato di guerra permanente, risale allora in scena, come una melassa transpartitica e transpolitica che si esprime, per adeguarsi ai tempi, con revisioni a tutto campo.
L’Europa, che nell’idea originaria tracciata dai confinati di Ventotene nel 1941 avrebbe dovuto unirsi per preservare la pace nel continente, ha seguito in questi decenni tutt’altre strade, per diventare infine, come Unione, l’attuale monstrum bellicista. Se per molti anni è stata la fortress contro cui si sono infrante molte speranze di profughi e migranti, oggi, percependosi «sotto minaccia», essa si ritrova in uno stato di mobilitazione crescente sotto l’egida di una NATO senza più freni. Viene azzerato quindi ogni patrimonio di realismo diplomatico accumulato dai paesi europei dal secondo dopoguerra. Come si evince da numerose dichiarazioni pubbliche, si riabilita invece il paradigma di Hiroshima, con la prefigurazione di una guerra atomica che legittimi anche l’opzione del «primo colpo», cioè dell’attacco atomico a freddo, improvviso e schiacciante. Nella Germania di Sholtz, dopo oltre 40 anni dai Cruise, che provocarono un movimento pacifista transnazionale, arrivano gli euromissili atomici di nuova generazione, i Tomahawk, missili SM-6 e missili ipersonici, ma in Germania e in Europa stavolta in un silenzio spettrale. Con lo sguardo ripiegato sul passato, si rilancia inoltre la russofobia, che avvelenò le atmosfere dell’Europa liberal-colonialista per gran parte dell’Ottocento e che ha conosciuto una pluralità aggiornamenti nell’Occidente euro-atlantico del Novecento. Sostenuta da una propaganda impetuosa, ritorna insomma la hybris che nel secolo scorso accecò l’Europa e portò alle parecchie decine di milioni di morti delle due guerre mondiali.
Il confine tra la realtà oggettiva e la falsificazione appare dissolto e i cambi di prospettiva rasentano oggi il paradosso. La Svezia, dotata di una forte e atavica inclinazione all’accoglienza, che ha voluto anche istituzionalizzare con leggi idonee, e ai primi posti al mondo per qualità della vita, si è convertita anch’essa alla dottrina della guerra. La Finlandia, acclamata per anni da un rapporto dell’ONU come la prima nazione al Globo per quel che viene definito «tasso di felicità», ha accettato di militarizzare circa 1.200 km di confine, cioè gran parte del proprio territorio, ossessionata da un attacco russo che le propagande danno come nell’ordine delle cose. Nelle logiche una potenza militare in pectore si muove invece il governo polacco che si dice disponibile a dislocare i missili nucleari ai confini con lo Stato nemico, mentre si dichiara pronto alla guerra e a mobilitare truppe. Pronti a intervenire si dicono le piccole e «insospettabili» Lituania, Estonia e Lettonia, mentre in Germania imperversano, come mai è avvenuto dal dopoguerra, la retorica militarista e le mega-esercitazioni militari. E per gli attori di questa curiosa Unione Europea, dalla Ursula von der Leyen al presidente francese Macron, si deve necessariamente vincere perché in caso contrario sarà presto la fine dell’Europa, con la Russia che dilagherà fino a Lisbona. È un vortice di ossessioni che agita i vertici politici continentali.
Come è sempre più tangibile, quel che manca in queste rappresentazioni del reale è una visione lucida delle proporzioni, il senso della complessità, il dinamismo delle mediazioni e l’esame delle differenze. Tutto si colloca sotto l’egida di un pensiero spaventato, quindi fragile e irrealistico, in cui il Bene supremo è chiamato a confrontarsi con il Male ontologico, associato di norma, per fare più effetto, al paradigma hitleriano. Non solo: tutti coloro che appaiono vicini a quella «presenza maligna», per nazionalità, religione, lingua e altro, ne portano il marchio, siano essi cittadini comuni o letterati, scienziati, artisti e filosofi, di oggi e del passato.
Riemerge in sostanza un vizio antico e ritornante che fa percepire la guerra come un totem necessario e irriducibile, quindi irrinunciabile, mentre ritorna, in versione farneticante, la memoria biologica del nemico che irrompe da Oriente. Nell’impero romano del IV-V secolo il monstrum spaventoso che dilagava dall’Asia erano gli Unni. Nei regni cristiani continentali del XIII secolo erano i Tartari. Nell’Europa centrale e mediterranea della prima modernità erano i Turchi. Dopo la crescita impetuosa del principato della Moscovia è stata la Russia zarista, che fondava un impero d’area quando le potenze europee fondavano, con la forza dei cannoni, imperi di ampiezza globale. Oggi il mostro distruttivo per l’Europa non c’è perché non ne possono esistere le condizioni, ma viene letteralmente inventato, cavalcando una crisi nazionalistica, quella russo-ucraina, che, nelle logiche di un sano buon senso avrebbe dovuto spingere i circoli dirigenti dell’Europa, proprio nel solco e nella memoria di quello che venne prefigurato a Ventotene nel 1941, a un attivismo diplomatico a tutto campo.
La sindrome della «fortezza assediata» non basta a spiegare però quel che accade. C’è una crisi d’identità da considerare, prodotta dal vuoto che avanza, dall’alienazione ipertecnologica e dai nuovi nichilismi che stanno indebolendo la dimensione del civile e, nelle nuove generazioni in particolare, il senso del futuro. L’esito è quello è uno stupore attonito che disorienta, che dalla meraviglia del mondo di cui scrivevano i Greci antichi porta alla paura e al senso della catastrofe incombente. In definitiva, dall’impeto di potenza, che ha spronato l’Occidente mondialista degli ultimi decenni, alla tracimazione del thanatos, pulsione incontinente di morte, il passo è stato davvero breve. Nel tracollo logico-cognitivo degli Stati e dei ceti dirigenti di una parte della Terra si riconosce in realtà una melassa trasformistica e transpolitica che converge appunto sulla prefigurazione messianica di una guerra assoluta da combattere, a qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo. Il principio dell’incoerenza rivela di essere allora il portato di una ragione predatrice che, come riemerge in maniera plateale dagli orrori smisurati in Palestina e in Libano, condotti da uno Stato fuorilegge coperto dal silenzio complice degli «innocenti», scopre fino in fondo la tragedia di un Occidente infermo, di cui l’Europa è la matrice storica.
Carlo Ruta Storico delle civilizzazioni e direttore scientifico del Laboratorio degli Annali di storia
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